La parte migliore del mio corpo è la mia ombra:
chiazza compatta e liscia di nero fumo,
sfiocca nei capelli con l’infrangersi di un’onda,
s’appoggia alla terra usandola come muro.

Fugge, non sa il sapore dell’ora calda e aspra,
stuzzica i fianchi danzanti d’un ignoto fuoco,
poi vola via, graffiando l’acqua dolciastra
sotto le gallerie verdi dell’Orinoco.

S’inguscia nelle scarpe quando il sole è allo zenit
e non ha lacrime per il riverbero dei moli.
Ma c’è chi giura d’averle visto digrignare i denti
crocifissa in una processione di girasoli.

Qualcuno pensa ancora le ombre incatenate
a talloni terra e muri con zampe di pulce,
ostaggio dei lampioni o guaito tra le arcate
delle tagliole confezionate dalla luce;

poveri illusi. Neanche immaginano il gran sabba
dopo ogni ultimo tondo raggio del giorno
quando le ombre esalano nel cielo di sabbia,
si diluiscono nel vento, si fondono

nel cielo ansimante di smisurate mammelle
vorticando con frastuono di coleotteri
verso infiniti amplessi neri che stringono le stelle.
Non abbiamo mai capito nulla della notte.