Blues d'amuro


Un tempo esistevano i primi della classe
quei tipi tristi e rosa che evitavano le feste;
l’immagine del padre sembrava quasi eroica
e un seno un po’ più gonfio pura poesia erotica.
Poi, un pomeriggio dal volto meno scuro,
lo scontro con la scritta: “Ora basta col profumo!”
apparsa tra tre fiori, dietro casa, su di un muro.

Ricordo Gianni, amico e bossoli di fucile
lanciati con i pugni al cielo color bile.
E Nicla a gambe aperte rideva sotto i banchi
la cicatrice rossa tra le sue cosce bianche.
Mia madre rivestiva di piombo i miei grembiuli
io intanto disegnavo aquiloni e stelle e cuori
unendo i fori delle pallottole sul muro.

La prima volta che mi misero su un treno
fui preso dal suo ritmo e dal grande finestrino:
stupivo per i ponti e per quante gallerie
mordessero la luce e il volo delle spighe.
Ma un controllore pazzo con grande sense of humor
bucandomi il biglietto – Bello – disse – sicuro,
ma non esaltarti tanto, anche quello è solo un muro. –

Ma ciò non mi svelava il senso della scritta
lasciata dai tre fiori. Su muri, scale e tetti
cercavo grida analoghe, graffiavo per le strade
coi fari d’una vecchia Clio verde come spade.
Riflessi di vernice le ridevano sul muso,
poi venne accartocciata per neanche mille euro.
Ma ancora vive, gialla, la sua doppia scia sul muro.

“Magari un grande dotto avrà mezza risposta
nel buco tra un talk show e l’ultima intervista”
pensavo, e allora fughe nei libri e nei giornali
tra penne raffinate esperte di reality.
Ma gli infiniti epigoni di Pasolini e Munch
allevano pidocchi tra scalpo, cuore e alloro
e appendono cravatte come cappi addosso al muro.

Così, con altri naufraghi di senso e notti insonni
si cominciò gettando bottiglie nastriformi
in strade incatramate di nebbia e muri zoppi.
Sui versi d’acqua e colla inciampano altri occhi
esausti di sorrisi al sapore di mentolo
dell’ansia caffeina come sale del futuro
del “come dovresti essere” che bacchetta da ogni muro.

Immagino una stanza, mattoni stretti, nudi,
tra strati di pareti che serrano solitudini,
in cui, nel buio denso, rintana la mia rabbia
si sfoga con lo sfascio di vasi, ori, gabbie
d’uccelli tropicali e ampolle di cianuro,
mettendo tutto in ordine al tramonto della luna.
Ne cerco il suono cavo picchiettando su ogni muro.

La sera, alle 21.00, qualcuno alla finestra
guardando la città con plastica aria mesta
per affrontare il tremulo silenzio delle alogene
vedrà come cavarsela con una citazione,
tra incubi di Lovecraft e sinossi di Camus.
Ma accosterà le tende sentendosi ormai nudo
allo sberleffo muto che calerà da un muro.

Ammetto la sconfitta dell’immaginazione
se Batman sul lettino piange la sua frustrazione
e la Giovanna d’Arco ripiena di diazepam
nasconde l’accendino in un liso reggicalze.
E allora e ancora e sempre tra l’umido e l’arsura
di calce e laterizi, ricercherò, lo giuro,
le cantiche dei fiori che crescono sul muro.