Medicina e poesia (introduzione in forma di lettera)
di Giorgina Piccoli


Caro Piero,

quando quest’estate ti avevo raccontato che, a seguito di una chiacchierata che si è protratta nella notte, di una buona grappa e di una torta alla frutta, ero stata invitata a parlare “a un gruppetto di amici, in modo informale, come ora...” del significato della poesia per un dottore, tra le molte cose che non avrei immaginato c’era di parlare dopo uno dei mostri sacri della cultura Italiana, uno che la poesia la mangia come il pane quotidiano. E figurati tu, quante cose non hai immaginato, starai dicendo adesso col tuo sorriso ironico e un po’ sbieco, e come ribattere a questo? Non avrei immaginato, ti dicevo, di essere così in imbarazzo, così a corto di idee.
Che potrei dire io in più, io che non sono altro che un giardiniere, un ortolano della medicina, uno che è tutto il giorno in mezzo a cose che, almeno a prima vista, di poetico hanno poco? (“Bello come una poesia”, chi mai lo direbbe di un cavolfiore, di un fagiolino, di un calcolo renale o un mal di denti?).
Così, quello che nella notte sembrava così facile, vuoi per la grappa, vuoi per la falce di luna, ora sembra molto più difficile.
Ma come tutto quello che è difficile, ha il pregio di suscitare domande.
Perché chiedere a un medico a cosa serve la poesia?
Che cosa un medico, in precario equilibrio tra arte e scienza, può dire, che interessi agli amanti dell’arte, fruitori appassionati di bella cultura, auspicabilmente sani come pesci?
Dato che ignoro il senso della vita, la ragione del soffrire e del gioire, mi manca una fede certa e diffido di qualunque verità, probabilmente non sono la persona più adatta a parlare di cose serie come a cosa serve l’arte o la poesia. Ho qualche dubbio, a volte, sull’aspirina.
Posto questo autodafé, dichiaro che a me, ad esempio, la poesia serve tantissimo (ma come tutte le cose belle, senza perdere tempo a fare delle scale, a organizzare cosmogonie complesse come il greco di Duremmatt), ma di questo fatto, pur nell’abituale egocentrismo che accomuna artisti e medici, non credo proprio che vi possa importare.
E vorrei, quindi, parlarvi di quanto la medicina e l’arte siano da sempre legate, di quanto, come in quegli amori in cui ci si conosce ragazzini, ci si lascia e ci si ritrova, malgrado tutto, lungo tutta la vita, medicina e poesia vadano insieme. Tutte le arti, se vogliamo; ma la medicina ha alcune cose in particolare in comune con la poesia.
La prima è la forza dell’intuizione: la poesia non spiega, mette in luce il sentire. La medicina fa la stessa cosa. L’altra settimana, ad un congresso in onore del suo ottantesimo compleanno, il professor Rocca Rossetti (urologo temutissimo da generazioni di studenti, oratore raffinato e interessante) ha concluso la sua lezione magistrale citando un articolo intitolato “doctors, a species on the verge of extinction? A visit to the 22nd century clinic” (medici, una specie in via di estinzione? una visita all’ospedale del 22esimo secolo). Parlava del ruolo del medico che, anche in un’epoca di passione per l'informatica, non può essere sostituito da un “cervello elettronico”.
Primo Levi ha scritto “Il versificatore”: una macchina straordinaria che componeva poesie su tutti i temi, in tutte le forme (tema il rospo, ottonari, stile didascalico: ”Tra i batraci eccovi il rospo/ brutto eppur utile anfibio/…/ verrucoso ha il ventre e il dospo/ ma divora i vermi cribbio!”) e che a un certo punto si inceppava nel bel mezzo di un sonetto in stile primo novecento in liguria: “Due connessioni si sono bruciatti/ siamo bloccati sulla rima in atti/ e siamo diventati mentecatti/ Signor Sinsone affrettati combatti/ vieni da me con gli strumenti adatti/ cambia i collegamenti designatti/ ottomiladuecentodiciassatti/ fai la riparazione. Tante gratti”.
Era in Storie Naturali.
Era la stessa conclusione.
L’intuizione clinica si basa spesso sulla percezione, come per un correttore di bozze, dell’errore. Per dirla alla Montale, dell’anello che non tiene, di quello che sfugge dalla regola. La forza della poesia sta spesso nell’uso di parole anche semplici, ma non banali, che nella loro combinazione possano saltare agli occhi, essere notate e ricordate.
La medicina e la poesia, a differenza di altre arti “intuitive”, come la musica o la pittura, hanno anche in comune il ruolo centrale della parola. La medicina si basa sul rapporto. Il rapporto si nutre della parola. La storia della medicina può essere riassunta dalla storia del rapporto medico paziente. Forse in questa chiave di lettura sta da un lato lo stupore, ahimè molto comune, per questa presunta eccezione (come, un medico che legge? E di poesia per giunta? Magari fosse un asino che vola…), dall’altro la recente scoperta “strutturata” del ruolo della poesia (e di tutte le arti) all’interno di una delle professioni più discusse ma più fondamentali, più criticata eppure più misteriosa, che l’uomo possa fare (insomma, a me piace; e devo dire anche che la popolazione dei medici lettori, colti, curiosi, avidi di tutte le arti è piuttosto estesa e pervicacemente tenace).
Probabilmente già i medici sciamani, i medici stregoni che dipingevano i corpi dei pazienti e le rocce delle grotte, sapevano usare l’arte della parola. A loro alcuni terpeutici fanno in effetti risalire l'orgine anche dell'arte terapia; è una teoria affascinante, anche se non ne abbiamo traccia certa.
Per noi la storia della medicina inizia con Ippocrate, duemilaquattrocento anni fa.
Il giuramento, che non si legge più al momento della laurea, che peccato, ci sono generazioni di medici che non l’hanno mai letto, tranne che abbiano comprato una maglietta con tutto scritto in greco in qualche viaggio (non c’è pericolo poi, grecum est, non legitur), il giuramento è bello come una poesia.
Dice già tutto sul perché la medicina è arte e non è scienza, e allora, come tutte le arti, va nutrita: è talmente bello, ogni parola è talmente pesata, che resta bello anche nelle traduzioni “Giuro per Apollo, medico, per Esculapio, per Igea e Panacea, per tutti gli dei e tutte le dee, prendendoli a testimoni, che terrò fede, secondo le mie forze e la mia capacità, al giuramento…”.
Certo, è una poesia diversa da Saffo e Alceo, dai “mostri negli abissi del rosso mare, la belva e la stirpe delle api” ma sentite la forza di questa frase: “Dirigerò le cure dei malati a loro vantaggio, secondo le mie forze e il mio giudizio, e mi asterrò da tutto il male e da tutte le ingiustizie.”
Bene, Ippocrate amava la parola, direte voi, ma che cosa ha a che fare questo con l’arte? La risposta è tutta qui, in questa frase: “metterò il mio maestro in medicina allo stesso rango di coloro che mi hanno dato la vita, dividerò con lui il mio avere e, se il caso lo richiedesse, provvederò ai suoi bisogni; considererò i suoi figli come miei fratelli e, se desiderassero apprendere la medicina, gliel’insegnerò senza salario nè impegno.”
Non è che non ci fossero libri su cui studiare la medicina. È che le arti non si imparano sui libri. Ippocrate stesso ci lascia un corpus monumentale, ma qui c’è quello che è proprio delle arti: quello che si tramanda con affetto, con l’affetto che si ha come un padre verso il figlio (e questa frase è dedicata a Federica Neve). Le tecniche si imparano. Le arti si trasmettono.
Bella cosa, potreste dire, ma quanto lontana da quello che si vede tutti i giorni, dal medico della mutua o in ospedale. Quanto distante dalla medicina moderna… Ebbene no, non sono d’accordo. La distanza è solo dalla cattiva medicina. Questo è quanto riporta una delle ultime edizioni dell’Harrison's Principles of Internal Medicine, la Bibbia della medicina interna, il testo su cui studiano oggi in Giappone ed in Canada, in Europa e in Africa. Il testo che unifica la medicina “occidentale” così inizia: “La pratica della medicina combina scienza ed arte. Il ruolo della scienza in medicina è chiaro… Ma l’abilità nelle tecnologie più complesse… non è sufficiente a fare un buon medico… Questa combinazione di conoscenza medica, intuizione e giudizio definisce l’arte della medicina”. L'introduzione cita anche un brano della prima edizione dell’Harrison’s, coem esempio di una validità sempre attuale: “Non c’è maggiore opportunità, responsabilità o obbligo che possa cadere tra gli esseri umani che essere un medico... per il medico, come per l’antropologo, nulla di quanto è umano provoca ripulsa… Il vero medico ha un afflato Shakespeariano di interesse per il saggio e il folle, l’orgoglioso e l’umile, l’eroe stoico ed il fragile lamentoso…Si cura delle persone.”
Non a caso non si cita uno scienziato ma Shakespeare, un poeta: per la capacità, propria dei sommi poeti, si sintetizzare un’emozione in pochissime parole.
Se le nostre radici di guaritori e maestri sono queste, come mai ce ne siamo discostati tanto da fornire materia per film, come ad esempio “Verso il sole” uno dei pochi film di Cimino che hanno fatto poca cassetta, o “Un medico un uomo” che di successo di cassetta ne ha avuto parecchio, in cui medici freddini e distaccati, solo quando vengono veramente a contatto con i disastri della vita ritornano umani e un po’ poeti?
Ci sono almeno due grandi ragioni: una è la critica ad un modello affascinante, quello del medico demiurgo che tutto sa e vede, che poco si adatta ad un mondo che cambia, dove il sapere non è appannaggio di uno solo (ma il modello del medico demiurgo tiene botta: è quello, in generale, delle medicine che non dovremmo più chiamare alternative, ma alleate o complementari, che fioriscono oggi anche per il bisogno di contatto e di rapporto, con un termine inflazionato, olistico tra medico e paziente).
Il modello paternalistico è un modello molto robusto; ammorbidito dalla coscienza dell’evoluzione, lo troviamo ancora centinaia di anni dopo in Mosè Maimonide (o forse in un suo epigono, un medico londinese che nel millesettecento, in piena rivoluzione industriale, scrive un meraviglioso falso storico: la preghiera). Anche qui la fine è quasi in versi: “Fammi essere soddisfatto di ogni cosa, eccetto della grande scienza della mia professione … Perché l’arte è grande, ma la mente dell’uomo è in continua espansione.”
La seconda ragione è storica: ancora una volta si tratta di un’eccezione. Travolte le medicine sciamaniche locali, svuotato il paese degli abitanti nativi, negli Stati Uniti nasce una società senza infrastrutture. In tutto il mondo, a quanto mi è dato di sapere, la medicina si sviluppa intorno a fede e magia, dagli stregoni ai monasteri mantiene un rapporto indissolubile con l’anima. Nel Nuovo Mondo no. Qui medici, veterinari e maniscalchi mettono su il loro office locale, il loro piccolo negozio. Si chiama, intermini tecnici, la medicina come office. Secondo lo stesso processo evolutivo che trasforma le botteghe in supermarket, i luoghi di cura si trasfromano in fabbriche della salute. Questa medicina si basa su prestazioni slegate, che si acquistano singolarmente, senza la necessità di un rapporto medico-paziente. C’è sì il vantaggio di porre l’accento sulla persona malata e sui suoi diritti, ma quanto capita è un disastro ecologico: l’alta tecnologia si presta alle malattie acute, ma le malattie croniche richiedono un rapporto. E in una società che invecchia sono le malattie croniche ad accumularsi.
Questi sono alcuni commenti di un focus group sulla qualità delle cure, tenuto recentemente nella nostra sede: “prima di parlare di qualità di vita, i medici dovrebbero imparare a chiamarci con i nostri nomi e non con quelli delle nostre malattie” o ancora “Provo quasi compassione per tutto il tempo sprecato da quei medici che, pur avendo la fortunata occasione di arricchire con il paziente la loro stessa vita e conoscenza, la sprecano perdendosi a focalizzare su un unico ed isolato pezzettino di quel puzzle fantastico che è la dimensione intera del paziente, mente e corpo, elementi inscindibili e preziosi, solo se visti nella loro complessità.”
Come mediare?
È qui che ritorna la poesia, proprio come gli amori perduti e ritrovati, che riguadagnano in intensità e forza quando, malgrado tutto, non possono più essere negati. È il modello dell’alleanza terapeutica, mediato dalla psicanalisi, basato sul rapporto.
Ed ecco, nella gestione di un rapporto in cui bisogna imparare a vicenda, in cui non conta solo il cosa, ma anche il come, che il medico ritorna un uomo.
Mi viene a volte da pensare, dopo vent’anni di pratica medica, che i primi lunghi anni del nostro lavoro siano dedicati a districarci per migliorare cosa sappiamo. Poi viene un punto in cui ci si rassegna ad una costante barbara ignoranza (per carità, non temete, si cerca di attrezzarci a metterci una pezza, ma mai basta) e, tirando le somme, ci si accorge che molto dei nostri limitati successi è dovuto al rapporto col paziente. È solo se siamo convincenti che la prescrizione si tramuta in una cura (la compliance, come si dice in inglese: si calcola che meno di metà dei pazienti assuma più di metà dei farmaci prescritti…).
E allora occorre migliorare non solo quello che si sa, ma quello che si è.
È da qui che parte la grande discussione accademica sull’importanza in medicina delle humanities, delle arti belle che distinguono l’essere umano dalla bestia, e sul ruolo di tutte le forme di arte terapia.
Perchè un medico che ascolta la Butterfly, legge Neruda o Madame Bovary dovrebbe essere meglio di uno che dilapida tutti i suoi averi in cavalli, belle donne e barche a vela?
Nessuno ha mai avuto una riposta, forse perché la bellezza è in tutti i luoghi e, come dice la Bibbia, gli uomini felici vivono più a lungo.
Tuttavia…
Dovendo scegliere non un compagno di golf, ma un buon dottore, non scegliereste uno che legge di poesia?
E ad un malato (come se tutti non fossimo malati) o a un paziente (come se tutti non dovessimo patire) perché dovrebbe fare bene la poesia?
Il discorso annuale del 2000 della National Association for Poetry Therapy racconta la storia di Herbert Zipper. Prigioniero a Dachau, privato di tutto, di ogni tangibile oggetto di memoria, comincia a recitare Goethe, e fonderà persino un’orchestra clandestina.
La storia di Primo Levi è molto simile, solo che recita Dante.
A volte, non si vince combattendo le cose brutte, cercando di cancellarle. È il problema del nostro mondo di Barbie abbronzate che scotomizza la malattia. A volte si vince, o almeno si combatte con onore, mettendo accanto ad una cosa molto brutta una cosa molto bella. È un approccio un po’ orientale, ma spesso funziona.
La poesia, la bellezza in tutte le sue forme, allora viene in aiuto nei momenti più neri, in questa strana strada verso la morte che è la vita di tutti noi.
Sia che ci aspetti un Dio misericordioso e cordiale, sia che torniamo a reincarnarci fino ad avere capito tutto sulla terra, sia che finiamo in pasto ai vermi e tanto basta, le cose belle, e la poesia tra queste, aiutano a viver meglio.
Dal mio osservatorio personale di nascite e di morte, dove alcuni giorni mi pare di vivere solo momenti estremi, di nudità davanti alla paura ed alla malattia, trovo che la sintesi di bellezza e passione che è nella poesia si adatti bene alla nostra vita di corsa, di poco tempo e di agognate intuizioni.

Arti ce ne sono tante.
C’è anche l’arte venatoria, o l’arte del pescare.
Nella frequente inutilità dei nostri gesti, per dirla come Ernesto Ragazzoni, quando “se ne vedono nel mondo/ che son osti, cavadenti/ boja eccetera o secondo/ le fortune gran d’Orienti/ c’è chi taglia e cuce braghe/ chi leoni addestra in gabbia/ chi va in cerca di lumache/ io fo buchi nella sabbia”, tra un buco nella sabbia e l’altro a volte ci capita di trovare dei pescatori un po’ particolari.
Da una parte o dall’altra del tavolo o del letto d’ospedale, caro Piero, sorridi, lo sai bene, ci si ritrova pescatori di nuvole.
E quando succede, aiuta.
Ed è bello.


Torino 27 settembre 2007
Dedicato a Piero e Gabriella Bonapace, e ai loro figli, Alessandro e Lorenzo.

Fonte: www.kore.it/caffe/poesia/piccoli1.html